Repetita iuvant

Per tante persone, la realtà non esiste fino a che non ne parlano loro. Così è per molti intellettuali e giornalisti, che magari con decenni di ritardo (ma con buone vendite e ritorno di immagine) scoprono finalmente che sull’Africa gravano pesanti ed erronei stereotipi. E, bontà loro, ritengono che questo sia il continente del futuro. Constatazioni familiari per chi segue il nostro blog e il lavoro di ricerca che lo ha preceduto, o che fa parte di reti come Vadoinafrica. Ma insomma: repetita iuvant…

Due bei libri, per rimanere in tema. Il primo è “Africa is Not a Country”, di Dipo Faloyin (2022), che critica il noto stereotipo per cui “l’Africa è tutta uguale”, come se fosse un grande, unico Paese. Il secondo è “Precolonial African Material Culture”, di V. Tarikhu Farrar (2020), che analizza il luogo comune della tradizionale “arretratezza” tecnologica del continente africano.

La foto è di Eva Blue

I 20 anni di “Immagine dell’Africa”

Il tempo passa, ma le questioni restano, sia pur in modo diverso. Ho sempre vissuto come un’ingiustizia profonda il modo distorto in cui le società e i popoli africani vengono rappresentati dai media e da altre fonti che propongono visioni della realtà: la scuola, i sistemi filosofici, la propaganda dei regimi, il cinema, i fumetti, le storie, le barzellette, i resoconti di alcuni volontari e missionari. Tutto questo, a sua volta, collegato a modelli profondi di rapporto tra il sé e l’altro. Grazie al maestro Giancarlo Quaranta, all’esperienza della rivista “Società africane”, al libro che ne pubblicò alcuni contributi nel 2005 (vedi la foto), e a tanti colleghi di quella che ora è Knowledge & Innovation, ho cominciato ad approfondire questo argomento, e continuo a farlo, con alterne energie. Il blog “Immagine dell’Africa” è nato 20 anni fa, per mandare avanti, in pillole, questa riflessione. Per fortuna, qualcosa è cambiato nel corso del tempo, anche se, andando a rileggere il primo post, del 18 gennaio 2004, molte cose sembrano scritte ieri. Ma i tempi del cambiamento culturale, si sa, sono lunghi. Tuttavia, bisogna pur cominciare da qualche parte.

Ringrazio con affetto chi, in questi anni, ha accompagnato il blog, leggendo e commentando (anche sui social). Qualcuno non c’è più, e lo ricordo con ulteriore gratitudine. Ringrazio anche alcuni amici molto impegnati in questo campo, che, in alcune ricorrenze particolari, hanno onorato il blog del loro saluto e dei loro preziosi commenti. : Valeria Alfieri, Stefano Anselmo, Fabrizio Casavola, Catia Miriam Costa, Gianfranco Della Valle, Silvano Galli, Martino Ghielmi, Kossi Komla-Ebri, Gianmarco Mancosu, Tiziana Manfredi, Francesca Moggi, Gabriele Quinti, Livio Ricciardelli, Niccolò Rinaldi, Simone Salvatori, Paolo Sannella, Cristina Sebastiani, Antonella Sinopoli, Elisabetta Tomassini.

Agency femminile nell’Uganda rurale

Nell’ampio panorama delle organizzazioni delle società civili presenti nel continente africano, opera, in Uganda, la ONG ARUWE (Action For Rural Women’S Empowerment), creata nel 2003. Ho avuto modo di conoscerla sul posto qualche giorno fa, nel quadro del progetto STEP CHANGE. ARUWE si descrive come “un’organizzazione focalizzata e sensibile al genere, che rafforza la leadership delle donne in modo che possano spezzare collettivamente le catene della povertà, del patriarcato, della repressione di classe e sessuale”. Questa organizzazione si occupa, con grande efficacia, di quattro temi: Comunità sanitarie sostenibili; Istruzione e apprendimento permanente; Rafforzamento economico e sociale delle donne; Resilienza climatica e giustizia.

Nella mia foto: un’associata di una cooperativa sostenuta da ARUWE nel distretto di Kyankwanzi, mentre si appresta, riciclando pannocchie, a produrre carbonella da cucina per uso privato e commerciale.

Quel poco che ho imparato (e un sogno antico)

Sono un ricercatore sociale e mi interesso da tempo su come le società africane vengono rappresentate nei media occidentali. Qualche giorno fa, sulla scia degli sfondoni giornalistici sul Niger, Martino Ghielmi, fondatore di VadoinAfrica (VIA), ha giustamente affermato che “Ci sono alcune questioni che non si possono accettare. Una di queste è come si parli/scriva di Africa in Italia.” E mi ha invitato, nel gruppo di discussione del suo network, a dire cosa ho imparato nei miei anni di studi ed esperienze e quale sia il mio “Grande Sogno Audace”. Riporto qui sotto quel che ho risposto, cercando di essere sintetico.

Cosa ho imparato, innanzitutto.

  • Di Africa si parla poco e male, per approssimazioni e stereotipi paternalistici e razzisti, che seguono logiche di politica internazionale, dis-organizzazione dei media, distorsioni professionali del mondo dell’informazione e dell’educazione, ma che corrispondono anche e soprattutto a dinamiche (profonde e stratificate nel corso dei secoli) di rappresentazione del “sé” e dell’”altro”.
  • Gli stereotipi sono di molti tipi (l’Africa come entità unica, un continente senza una vera storia e spiritualità, esotismo, folklore, guerre tribali, natura incontaminata, gentilezza e primitività, iper-sessualizzazione del corpo maschile e femminile, ecc.) e sono ovviamente duri a morire (come lo è ad es. il patriarcato), perché sono legati a miti radicati e modelli che possono essere scardinati solo nel medio e lungo periodo, con nuovi modi di vita. Questo meriterebbe un discorso a parte.
  • Una delle rappresentazioni dell’Africa più dannose è quella dell’infantilismo: nel nostro discorso pubblico è prevalente l’immagine di un’Africa “eternamente bambina”, quella più abbordabile, “passiva”, plasmabile e in virtù della quale si può esercitare protezione e paternalismo; invece l’Africa adulta è bandita, se non per parlare di guai (o qualche volta di artisti e calciatori), ed escludendo l’opera di scienziati, innovatori, imprenditori, leader politici e sociali emergenti; come se non esistessero attori africani “affidabili” con cui dialogare.
  • Queste rappresentazioni le ritroviamo ovunque, nei media, nei libri di storia e geografia, nelle barzellette, nei film, nei fumetti, nel marketing turistico, nei report politici e commerciali, ecc..
  • Tutto questo influenza, accompagna, rafforza il modo di porsi nei confronti dei popoli africani.
  • Occorre andare oltre alle categorie dell’afro-pessimismo o dell’afro-ottimismo: il tema è dare una rappresentazione il più completa e onesta possibile delle politiche, delle società e della gente del continente africano.
  • Su questo aspetto, la situazione sta cambiando negli ultimi 10-15 anni, ma ancora lentamente.
  • La narrazione procede sempre con l’esperienza: per risolvere i problemi di cui sopra, è ingenuo e inefficace proporre solo “discorsi” e “contro-narrazioni” sull’Africa, senza cambiare anche il modo di “vivere” in profondità il rapporto con le società e la gente africana (che vuol dire conoscenza diretta, viaggi adeguatamente preparati – se no si torna più razzisti di come si è partiti -, incontro, co-educazione delle nuove generazioni, scambi scientifici-culturali e commerciali alla pari, relazioni politiche degne, ecc.); su questo versante, VIA è un modello assoluto di riferimento!
  • Una più compiuta rappresentazione + esperienza dell’Africa è un’impresa collettiva, un obiettivo concreto a cui possono e devono concorrere vari attori dell’informazione, dell’educazione, della politica, dell’economia, dell’arte e della cultura, della società civile, del mondo religioso.

Il mio “Grande Sogno Audace”? Quello di sempre, quello da cui sono partito negli anni ‘80: al di là del paternalismo e del razzismo del “quel che noi possiamo fare per l’Africa”, contribuire a mostrare quello che gli attori africani sono e già fanno, per preparare il terreno a una profonda comprensione reciproca e a una reale cooperazione.

Original image sourced from US Government department: Public Health Image Library, Centers for Disease Control and Prevention.

Gender mainstreaming nella gestione delle alluvioni

Si è svolto a Boksburg (Sudafrica) dal 10 al 12 maggio un importante workshop sul gender mainstreaming nella gestione delle alluvioni. Un tema cruciale, e certamente non solo nei paesi appartenenti alla Southern African Development Community (SADC) a cui l’iniziativa fa riferimento: Angola, Botswana, Comore, Repubblica democratica del Congo, Eswatini, Lesotho, Madagascar, Malawi, Mauritius, Mozambico, Namibia, Seychelles, Sudafrica, Tanzania, Zambia e Zimbabwe. Il workshop, cui ho partecipato, è stato promosso dalla World Meteorological Association, da Knowledge & Innovation e dal South African Weather Service.

Come si afferma nel documento preparatorio: “Nei paesi SADC, la distribuzione iniqua di diritti, risorse e potere, sostenuta da norme, pratiche e regole sociali e culturali, limita la capacità di molte persone di agire e adattarsi in risposta agli impatti del cambiamento climatico. Ciò è particolarmente vero per le donne povere, che affrontano sfide che le rendono più vulnerabili agli impatti degli eventi del cambiamento climatico (ma anche per altre persone vulnerabili, come gli anziani, le persone con disabilità, ecc.). (…) L’integrazione della dimensione di genere in tutte le fasi della prevenzione e della gestione del rischio climatico è essenziale. Garantisce che le vulnerabilità e le esigenze, le capacità, le competenze e le conoscenze di donne e uomini, ragazze e ragazzi, anziani e bambini siano prese in considerazione nella prevenzione e nella gestione del rischio climatico; e che gli interventi sui rischi climatici avvantaggino coloro che ne sono effettivamente colpiti. Incorporare una prospettiva di genere nelle iniziative di prevenzione e gestione del rischio di catastrofi offre importanti punti di ingresso per affrontare gli stereotipi, le disuguaglianze e la discriminazione di genere esistenti, contribuendo così non solo a costruire comunità più sicure e resilienti, ma anche società più inclusive e socialmente giuste.”

Il workshop è stato incentrato, in particolare, sul mainstreaming dei temi di genere negli approcci alla gestione delle alluvioni denominati “End-to-End Early Warning System for Flood Forecasting” e “Integrated Flood Risk Management”.

Foto: D.M.

Comunicazione scientifica ed educazione ambientale nel continente africano

Una migliore comunicazione scientifica può aiutare enormemente l’educazione ambientale di chi decide e di chi opera. In uno studio di Innocent Chirisa (University of Zimbabwe e University of the Free State, South Africa) e Abraham Rajab Matamanda (University of the Free State), si approfondisce questo argomento di vitale importanza, con una applicazione ad alcune realtà africane. Spesso, in questo ambito come in altri, gli scienziati non sono buoni comunicatori verso i decisori, i media, il grande pubblico. Questo rende difficile per molti cogliere analiticamente i fenomeni, i problemi e le possibili soluzioni in campo ambientale, in settori come l’agricoltura, la gestione dell’acqua, i servizi igienici e sanitari, gli alloggi.

Foto: RNW.org

La visione dell’Africa in Australia

Forse solo le nuove generazioni potranno creare un modo diverso di impostare le relazioni con i paesi e i popoli africani. Forse. Il modo attuale è del tutto fallimentare, tra sfruttamento, neocolonialismo, paternalismo, razzismo, incapacità di cogliere la realtà. Questo vale a tutte le latitudini. Ripesco dal periodo pandemico un contributo dall’Australia, di Annalise Feller, sulla necessità di ripensare l’approccio del proprio paese al continente africano. A partire da una critica ai radicati stereotipi, e da alcune statistiche e informazioni sul dinamismo e sulle opportunità delle società e delle economie africane, che sono a disposizione di tutti, ma che pochi leggono e utilizzano.

La foto è tratta da: http://www.humancondition.com

Comunicare la scienza nel continente africano

La crescente sfiducia dei cittadini verso le istituzioni coinvolge oggi anche la ricerca scientifica, il suo approccio, i suoi risultati. E’ un fenomeno molto complesso e non facile da affrontare, che si presenta, con sue modalità, anche nei paesi del continente africano. Comunicare meglio la ricerca scientifica non è la soluzione, ma certamente aiuta. Un recente articolo di Elizabeth Rasekoala fa il punto sulla cosiddetta comunicazione della scienza “responsabile” in Africa, sulla base dei risultati del progetto RETHINK.

I comunicatori scientifici africani, secondo l’autrice, devono perseguire attivamente un’agenda di cambiamento radicale ed esplicito legato all'”afrocentricità intellettuale”, alla decolonizzazione delle loro pratiche e programmi e ad affrontare le tante lacune insite nelle politiche, nella pratica, nella ricerca, nelle risorse e nel rafforzamento delle capacità nel continente su questo versante. Ne seguono indicazioni su strategie, metodologie e approcci che mettano in primo piano l’agency, le sensibilità culturali, la conoscenza indigena e le prospettive dei comunicatori scientifici africani e del pubblico africano nel suo insieme.

La foto è tratta dal sito dell’ICGEB Cape Town, ed è relativa all’iniziativa “Science & the City”: https://www.icgeb.org/first-international-edition-of-icgeb-science-the-city-in-cape-town-south-africa/

Informale? Intendiamoci

Tra gli stereotipi che si attribuiscono alle società africane, indistintamente, vi è quello di un legame (quasi un destino) con la dimensione economica dell’”informalità”. La dimensione “informale” è un tema complesso, sul quale si sono stratificate, nel tempo, serie analisi ma anche vere e proprie mitologie; che si intrecciano con antiche, radicate (e false) rappresentazioni della gente africana come ineluttabilmente arretrata, incapace di organizzazione, economicamente propensa al baratto. Ho ripescato un articolo del 2019 di alcune ricercatrici dell’Agence française de développement, in cui si identificano, e smontano, almeno 5 miti sull’economia informale nel mondo, e con diversi esempi relativi a paesi africani:

1. I lavoratori informali agiscono solo in un’economia sommersa.

2. I lavoratori informali provengono da ambienti poveri e con un basso livello di istruzione.

3. I lavoratori informali sono impotenti e senza speranza.

4. I lavoratori informali non utilizzano la tecnologia, quindi vengono esclusi.

5. Il lavoro informale dovrebbe essere formalizzato a tutti i costi.

Materiale per riflettere e da approfondire, senza dubbio. Utile per non dare per scontate tante idee correnti.

Foto di Ron’s Iterations

Sotto il microscopio

Il 95% delle malattie che colpiscono gli abitanti del continente africano possono essere ridotte con una buona nutrizione. Interessa a qualcuno? Certamente all’organizzazione “Under the Microscope”, basata a Nairobi. Fondata nel 2018, si focalizza sull’educazione alla scienza e all’innovazione, cercando di valorizzare il lavoro dei ricercatori africani. Non è certo un caso unico, per fortuna, ma esemplare per l’approccio. Nel quadro del progetto ResBios sulle bioscienze responsabili, è in preparazione un’intervista a Stephanie Okeyo, direttrice dell’organizzazione, a cura di Chris Styles.

Photo: “Professor Amivi Kafui Tete-Benissan teaches cell biology and biochemistry” by World Bank Photo Collection is licensed under CC BY-NC-ND 2.0.