Gender mainstreaming nella gestione delle alluvioni

Si è svolto a Boksburg (Sudafrica) dal 10 al 12 maggio un importante workshop sul gender mainstreaming nella gestione delle alluvioni. Un tema cruciale, e certamente non solo nei paesi appartenenti alla Southern African Development Community (SADC) a cui l’iniziativa fa riferimento: Angola, Botswana, Comore, Repubblica democratica del Congo, Eswatini, Lesotho, Madagascar, Malawi, Mauritius, Mozambico, Namibia, Seychelles, Sudafrica, Tanzania, Zambia e Zimbabwe. Il workshop, cui ho partecipato, è stato promosso dalla World Meteorological Association, da Knowledge & Innovation e dal South African Weather Service.

Come si afferma nel documento preparatorio: “Nei paesi SADC, la distribuzione iniqua di diritti, risorse e potere, sostenuta da norme, pratiche e regole sociali e culturali, limita la capacità di molte persone di agire e adattarsi in risposta agli impatti del cambiamento climatico. Ciò è particolarmente vero per le donne povere, che affrontano sfide che le rendono più vulnerabili agli impatti degli eventi del cambiamento climatico (ma anche per altre persone vulnerabili, come gli anziani, le persone con disabilità, ecc.). (…) L’integrazione della dimensione di genere in tutte le fasi della prevenzione e della gestione del rischio climatico è essenziale. Garantisce che le vulnerabilità e le esigenze, le capacità, le competenze e le conoscenze di donne e uomini, ragazze e ragazzi, anziani e bambini siano prese in considerazione nella prevenzione e nella gestione del rischio climatico; e che gli interventi sui rischi climatici avvantaggino coloro che ne sono effettivamente colpiti. Incorporare una prospettiva di genere nelle iniziative di prevenzione e gestione del rischio di catastrofi offre importanti punti di ingresso per affrontare gli stereotipi, le disuguaglianze e la discriminazione di genere esistenti, contribuendo così non solo a costruire comunità più sicure e resilienti, ma anche società più inclusive e socialmente giuste.”

Il workshop è stato incentrato, in particolare, sul mainstreaming dei temi di genere negli approcci alla gestione delle alluvioni denominati “End-to-End Early Warning System for Flood Forecasting” e “Integrated Flood Risk Management”.

Foto: D.M.

Comunicazione scientifica ed educazione ambientale nel continente africano

Una migliore comunicazione scientifica può aiutare enormemente l’educazione ambientale di chi decide e di chi opera. In uno studio di Innocent Chirisa (University of Zimbabwe e University of the Free State, South Africa) e Abraham Rajab Matamanda (University of the Free State), si approfondisce questo argomento di vitale importanza, con una applicazione ad alcune realtà africane. Spesso, in questo ambito come in altri, gli scienziati non sono buoni comunicatori verso i decisori, i media, il grande pubblico. Questo rende difficile per molti cogliere analiticamente i fenomeni, i problemi e le possibili soluzioni in campo ambientale, in settori come l’agricoltura, la gestione dell’acqua, i servizi igienici e sanitari, gli alloggi.

Foto: RNW.org

La visione dell’Africa in Australia

Forse solo le nuove generazioni potranno creare un modo diverso di impostare le relazioni con i paesi e i popoli africani. Forse. Il modo attuale è del tutto fallimentare, tra sfruttamento, neocolonialismo, paternalismo, razzismo, incapacità di cogliere la realtà. Questo vale a tutte le latitudini. Ripesco dal periodo pandemico un contributo dall’Australia, di Annalise Feller, sulla necessità di ripensare l’approccio del proprio paese al continente africano. A partire da una critica ai radicati stereotipi, e da alcune statistiche e informazioni sul dinamismo e sulle opportunità delle società e delle economie africane, che sono a disposizione di tutti, ma che pochi leggono e utilizzano.

La foto è tratta da: http://www.humancondition.com

Comunicare la scienza nel continente africano

La crescente sfiducia dei cittadini verso le istituzioni coinvolge oggi anche la ricerca scientifica, il suo approccio, i suoi risultati. E’ un fenomeno molto complesso e non facile da affrontare, che si presenta, con sue modalità, anche nei paesi del continente africano. Comunicare meglio la ricerca scientifica non è la soluzione, ma certamente aiuta. Un recente articolo di Elizabeth Rasekoala fa il punto sulla cosiddetta comunicazione della scienza “responsabile” in Africa, sulla base dei risultati del progetto RETHINK.

I comunicatori scientifici africani, secondo l’autrice, devono perseguire attivamente un’agenda di cambiamento radicale ed esplicito legato all'”afrocentricità intellettuale”, alla decolonizzazione delle loro pratiche e programmi e ad affrontare le tante lacune insite nelle politiche, nella pratica, nella ricerca, nelle risorse e nel rafforzamento delle capacità nel continente su questo versante. Ne seguono indicazioni su strategie, metodologie e approcci che mettano in primo piano l’agency, le sensibilità culturali, la conoscenza indigena e le prospettive dei comunicatori scientifici africani e del pubblico africano nel suo insieme.

La foto è tratta dal sito dell’ICGEB Cape Town, ed è relativa all’iniziativa “Science & the City”: https://www.icgeb.org/first-international-edition-of-icgeb-science-the-city-in-cape-town-south-africa/

Informale? Intendiamoci

Tra gli stereotipi che si attribuiscono alle società africane, indistintamente, vi è quello di un legame (quasi un destino) con la dimensione economica dell’”informalità”. La dimensione “informale” è un tema complesso, sul quale si sono stratificate, nel tempo, serie analisi ma anche vere e proprie mitologie; che si intrecciano con antiche, radicate (e false) rappresentazioni della gente africana come ineluttabilmente arretrata, incapace di organizzazione, economicamente propensa al baratto. Ho ripescato un articolo del 2019 di alcune ricercatrici dell’Agence française de développement, in cui si identificano, e smontano, almeno 5 miti sull’economia informale nel mondo, e con diversi esempi relativi a paesi africani:

1. I lavoratori informali agiscono solo in un’economia sommersa.

2. I lavoratori informali provengono da ambienti poveri e con un basso livello di istruzione.

3. I lavoratori informali sono impotenti e senza speranza.

4. I lavoratori informali non utilizzano la tecnologia, quindi vengono esclusi.

5. Il lavoro informale dovrebbe essere formalizzato a tutti i costi.

Materiale per riflettere e da approfondire, senza dubbio. Utile per non dare per scontate tante idee correnti.

Foto di Ron’s Iterations

Sotto il microscopio

Il 95% delle malattie che colpiscono gli abitanti del continente africano possono essere ridotte con una buona nutrizione. Interessa a qualcuno? Certamente all’organizzazione “Under the Microscope”, basata a Nairobi. Fondata nel 2018, si focalizza sull’educazione alla scienza e all’innovazione, cercando di valorizzare il lavoro dei ricercatori africani. Non è certo un caso unico, per fortuna, ma esemplare per l’approccio. Nel quadro del progetto ResBios sulle bioscienze responsabili, è in preparazione un’intervista a Stephanie Okeyo, direttrice dell’organizzazione, a cura di Chris Styles.

Photo: “Professor Amivi Kafui Tete-Benissan teaches cell biology and biochemistry” by World Bank Photo Collection is licensed under CC BY-NC-ND 2.0.

L’etnia in farmacia

Maggio 2022. Ripeto: maggio 2022. Oggi volevo scrivere qualcosa di profondo, articolato, documentato. Poi mi è caduto l’occhio sul bugiardino di una medicina per la pressione che sto prendendo in questo periodo. Con attonita sorpresa, in un passaggio ho letto: “Pazienti di etnia nera”. Sono andato a controllare, e vedo che è prassi diffusa, in ambito sanitario, usare questa espressione. State leggendo il post numero 601 di questo blog, creato nel 2004. E, come vedete, c’è ancora tanto da lavorare.

Omicron: stereotipi, restrizioni, paternalismo scientifico

Le assurde restrizioni di viaggio applicate poco tempo fa nei confronti dei paesi dell’Africa Australe hanno fatto riemergere l’esistenza di vecchi pregiudizi. Pregiudizi, di stampo coloniale, per cui all’Africa bisogna guardare sempre e comunque con sospetto (epidemie, sporcizia, inquinamento, per fare qualche esempio). Persino quando, sulla base di un eccellente lavoro di ricerca, vengono scoperte e correttamente divulgate importanti informazioni come quelle relative alla variente Omicron del Covid-19. La reazione dei paesi più ricchi è stata sbagliata e fondata più su stereotipi che su evidenze scientifiche. In questo contesto, pesa anche l’enorme fatica con cui la ricerca africana viene riconosciuta e apprezzata, nonostante le punte di eccellenza raggiunte in settori come la sanità (specie circa HIV/AIDS) e l’ambiente. Senza contare il vero e proprio paternalismo scientifico, che si sostanzia nell’abuso delle visioni e delle politiche di “capacity building” unilaterali, dai paesi ricchi a quelli africani. Ma questo meriterebbe un discorso a parte.

foto: IAEA Imagebank

La vicenda dell’Istituto Luce ci parla ancora

L’ultimo lavoro di Gianmarco Mancosu ha al suo centro la storia di una impostura colossale: quella della costruzione dell’immagine dell’Italia coloniale e dei popoli colonizzati ad opera del Reparto Africa Orientale dell’Istituto Luce, ovvero l’ente statale deputato alla propaganda foto-cinematografica creato durante il fascismo. Il volume, in uscita a inizio febbraio presso MIMESIS, si intitola “Vedere l’impero. L’istituto Luce e il colonialismo fascista”. E’ il frutto di una lunga e documentissima ricerca storica, con una notevole apertura interdisciplinare verso le scienze umane, di cui abbiamo presentato in questo blog alcuni risultati intermedi, ma già consolidati. Si tratta di un lavoro che può essere letto da diverse prospettive: una ricostruzione accurata della creazione e gestione di un’organizzazione propagandistica durante il fascismo; un’analisi dell’intreccio tra politiche espansionistiche del ventennio ed attività culturali/educative al livello di massa; uno studio delle modalità di auto-rappresentazione del colonialismo fascista e di rappresentazione dei popoli colonizzati, che approfondisce numerose dinamiche che abbiamo affrontato in questo blog: per dominare l'”altro”, occorre dipingerlo come inferiore (arcaico, infantile, superstizioso, pre-moderno, incapace di organizzarsi….) e dunque bisognoso del nostro intervento. Ma la vicenda dell’Istituto Luce ci parla ancora. Le immagini delle foto e dei documentari coloniali, ricorda Mancosu, “possono rivelare come quel passato ancora influenzi il nostro presente e in particolare il discorso pubblico sulla riforma delle normative di cittadinanza, la percezione dei soggetti migranti e delle seconde generazioni, i rapporti politici con le ex colonie e con l’Africa; in una parola i modi attraverso cui si è definita, e tuttora si definisce,
l’alterità, e quindi l’identità, dell’Italia contemporanea.”

CSR: la responsabilità sociale delle imprese, tra marketing e sostanza

Da diverso tempo si sta diffondendo, nel continente africano, la nozione di Corporate Social Responsibility (CSR), che a grandi linee si riferisce alla responsabilità delle imprese circa il loro impatto sulla società. Impatto che può essere interno alle imprese (migliorare le condizioni di lavoro del personale, promuovere il ruolo delle donne, ecc.) o esterno, ovvero riguardo al rapporto con il territorio in cui si produce e con la comunità umana che vive in quel luogo. La CSR può avere un contenuto etico (indicare qualcosa che è auspicabile fare: essere sostenibili, amici dell’ambiente, ecc.) o può riferirsi a fenomeni che già avvengono a prescindere. Di fatto ha un contenuto abbastanza generico, che viene di volta in volta precisato e declinato a seconda dei contesti politici nazionali e internazionali (Unione Europea, organizzazioni delle Nazioni Unite, OECD, ecc.), dei filoni di studio socio-economici, dei settori produttivi, e soprattutto degli attori che sono coinvolti. Inutile sottolineare che spesso la CSR diventa un comodo strumento di immagine a basso costo, che in Africa si sposa a volte con un indigesto atteggiamento caritatevole. E’ altrettanto vero che la CSR ha a che fare con la sempre più importante e indispensabile dimensione del dialogo tra le imprese e gli attori politici, della società civile e della ricerca. Esistono vari studi sulla CSR in Africa, tanto per citare qualcosa di recente: alcuni che operano un primo bilancio generale sulla base di studi di caso nazionali, e altri che focalizzano aspetti più particolari, come la cura del personale nel rispetto delle culture locali; il rapporto tra pubblicità e realtà; la CSR nelle imprese di costruzione cinesi, la CSR delle multinazionali nel Delta del Niger, e altro ancora.

Credit della foto: National Leasing – Own work, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15729740