Repetita iuvant

Per tante persone, la realtà non esiste fino a che non ne parlano loro. Così è per molti intellettuali e giornalisti, che magari con decenni di ritardo (ma con buone vendite e ritorno di immagine) scoprono finalmente che sull’Africa gravano pesanti ed erronei stereotipi. E, bontà loro, ritengono che questo sia il continente del futuro. Constatazioni familiari per chi segue il nostro blog e il lavoro di ricerca che lo ha preceduto, o che fa parte di reti come Vadoinafrica. Ma insomma: repetita iuvant…

Due bei libri, per rimanere in tema. Il primo è “Africa is Not a Country”, di Dipo Faloyin (2022), che critica il noto stereotipo per cui “l’Africa è tutta uguale”, come se fosse un grande, unico Paese. Il secondo è “Precolonial African Material Culture”, di V. Tarikhu Farrar (2020), che analizza il luogo comune della tradizionale “arretratezza” tecnologica del continente africano.

La foto è di Eva Blue

15 anni di “Immagine dell’Africa”

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Il 18 gennaio del 2004, con timidezza – e una certa imperizia che tutt’ora mi accompagna – pubblicavo il primo post del blog “Immagine dell’Africa”. Figlio minore, ma testardo, di alcune importanti iniziative di ricerca ed editoriali, sfociate nella rivista “Società africane” (che ebbe vita breve per mancanza di fondi adeguati alle ambizioni), e nell’omonimo volume, curato in primis dal compianto Giancarlo Quaranta e (molto poi) anche da me. Il blog, semplicemente, voleva costituire un piccolo osservatorio sul modo in cui, dalle parti nostre ma non solo, sono considerati e raccontati i popoli e le società del continente africano, specialmente a sud del Sahara. Magari proponendo qua e là qualche elemento per una rappresentazione diversa, quanto meno più aderente alla complessa realtà africana. Anche con l’aiuto di tanti amici e colleghi che nel tempo mi hanno fornito documenti, segnalazioni, informazioni, suggerimenti e che, qualche volta, hanno pubblicato qualcosa qua dentro. Nel frattempo, diverse cose sono cambiate e molte no. Tra le cose cambiate c’è sicuramente una maggiore attenzione su questo argomento, anche grazie a persone che ci lavorano a tempo pieno, con passione e competenza. Alcune le ho interpellate, per celebrare a modo nostro questi 15 anni, ovvero facendo il punto della situazione: è cambiato qualcosa nel modo di immaginare e descrivere l’Africa, o meglio le Afriche? Cosa non è cambiato e cosa si può dire e fare ancora? Ci sono argomenti su cui vale la pena di soffermarsi? Bene, da qui a un paio di mesi pubblicherò periodicamente sul blog alcuni generosi contributi, che sono in una forma volutamente semplice e sintetica, in quanto spunti di riflessione e approfondimento, per chi vuole. Comincio con Antonella Sinopoli, che ringrazio per la passione e la sollecitudine con cui ha risposto. Un testo tagliente e profondo, che certamente da’ il “la” a tutto quel che verrà dopo.

D.M.

Antonella Sinopoli, giornalista

Che cosa sappiamo? Che cosa sappiamo noi di questo corpo nero che vaga per le nostre strade in cerca di una moneta o di un riparo. Cosa sappiamo delle strade già percorse. E cosa delle percosse che lo hanno segnato. Cosa sappiamo della sua storia. E cosa della Storia che cavalca secoli e si ciba di verità quanto di bugie e di omissioni.

Ah quanto sarebbe bello fare un quiz collettivo. Un quiz, sì, in questa enorme Piazza Italia. Cominciamo dalle domande di storia. Che so… quando cominciò e quando fu abolita (per molto tempo solo sulla carta, intendiamoci) la tratta atlantica? Oppure: chi era Kwame Nkrumah? E il panafricanismo, il panafricanismo sapete cos’è? E di Steve Biko? Che sapete di lui? E ancora: chi sa nominare alcuni degli imperi africani pre-coloniali… Dai, dai, continuiamo con qualche domanda di geografia. Capitale del Mali? Sorgente del Nilo? Monte più alto? Troppo facili, vero? Ok, ora: quanti sono gli Stati africani? Esistono ancora monarchie? Chi ha vinto le ultime elezioni in Nigeria? Troppo facile, lo so. Del resto basta leggere i giornali. Tenersi informati. No, non parlo dei giornali italiani. Sì, faranno pure bene (?) ma vi risulta che qualcuno abbia corrispondenti locali da qualcuno dei Paesi africani?

E no, attenzione, quando parlo di corrispondenti parlo di giornalisti africani. Sì, del corpo nero. Perché guardate che possiamo anche inviare (raramente) qualche parachute journalist, ma vi assicuro che farà più confusione che altro. Non è mica che non sappia il suo mestiere. Ma provateci – per esempio – a mandare un giornalista russo a Parigi per soli tre giorni e spiegare la rivolta dei gilets jaunes. Sapete cosa farà? Leggerà la stampa locale per farsi un’idea, parlerà con più colleghi possibili, scenderà in strada per guardare e poi scriverà la sua corrispondenza. Beh, tanto valeva pagare un giornalista locale, no? Mamma mia come sono estrema nei miei giudizi! E lo so… Il fatto è che mi piacerebbe continuare il mega quiz in Piazza Italia. Parlare di letteratura, per esempio. Perché è là sui libri – non quelli di scuola – che si conosce la storia dell’Africa. Parlo di scrittrici, scrittori africani. Neri, o anche bianchi come la grande Nadine Gordimer, che ha raccontato la vergogna dell’Apartheid con quella “fredda emozione” (è una mia espressione) che coinvolge ad ogni parola. O come Mia Couto, mozambicano bianco, capace di costruire parole nuove da parole usate, mettendoci dentro il calore di miti, leggende, fantasie, realtà quotidiane. Ma mi sto perdendo… Dicevo, scrittrici, scrittori africani. Quelli che ci stanno restituendo la storia di questo continente così nero e così abbacinante. Anzi la Storia.

Come il colosso Chinua Achebe che in quella trilogia che è romanzo storico, ci racconta la Nigeria – ma in realtà l’Africa tutta – prima della colonizzazione, durante e dopo. Epoche di passaggio, di transizione tra due culture, ma dove una prevarica senza pietà sull’altra. (Things Fall Apart, No Longer at Ease, The Arrow of God). Come Maryse Condé, di lingua francese e nativa della Guadalupe (non africana in questo caso, ma grande storica e ricercatrice). Anch’essa artefice di racconti che sono percorsi storiografici. Come la saga familiare di Ségou. Cito solo Le murailles de terre e La terre en miettes, dove narra di imperi che occupavano i territori del Mali, del Senegal, del Ghana, di popoli stretti tra le armi e le volontà di imam e sceicchi arabo/islamici da un lato e quelle dei francesi usurpatori dall’altro, di quelle ribellioni – ad Haiti, ad esempio – che di tanto in tanto rianimavano gli animi piegati degli schiavi. O come Ahmadou Kourouma, camerunense che in En attendant le vote des bêtes sauvages dà la misura di quanto maligna e crudele possa essere stata (in alcuni casi lo è ancora) la febbre di potere di certi leader africani, maestri di violenza e oppressione. O ancora la rivelazione Jennifer Nansubuga Makumbi che in Kintu ha narrato in modo epico intere generazioni toccate da una maledizione che non risparmia nessuno. Partendo dal regno di Buganda (odierno Uganda) del XVIII secolo si traccia la storia di re, famiglie, usi e costumi fino ad arrivare a quei discendenti che nell’arco di tre secoli, affronteranno i drammi dei cambiamenti, della “civilizzazione”, della povertà e dell’umiliazione in terra straniera, della caduta e del riscatto. E poi – in questa piccola biblioteca essenziale – devo aggiungere Half of a Yellow Sun della celebre Chimamanda Ngozi Adichie, immenso racconto di una Nigeria divisa, in lotta fratricida, che mette luce su quella guerra del Biafra associata in Occidente “solo” con quei poveri piccoli corpi scheletrici e che diede di fatto il via alla stagione degli aiuti per i bambini africani. “Mangia tutto che in Africa i bimbi come te muoiono di fame”, quale mamma a partire dalla fine degli anni Sessanta non ha pronunciato questa frase? E aggiungo anche Maaza Mengiste, nata ad Addis Abeba che in Beneath the Lion’s Gaze racconta la rivoluzione etiope del 1974, gli ultimi giorni dell’imperatore Haile Selassie deposto da un governo militare di stampo socialista, la fame del popolo, le prigioni e le torture, mentre gli eventi corrono anche all’indietro, nel ricordo della brutalità del colonialismo italiano e delle ferite lasciate da quel periodo storico.

Vorrei citarne altri, molti altri di testi che aiutano a studiare la Storia dell’Africa, del passato e di oggi. Ma in Piazza Italia dicono che hanno da fare e che, dopotutto, i corpi neri sempre neri rimangono. E se non sappiamo da dove vengono, quali e quante lingue parlano, dove si trova il loro Paese o se possono contribuire a farci conoscere e imparare qualcosa che non sappiamo, chi se ne frega. Noi siamo italiani e gli italiani – chi è che lo dice? – vengono prima. E non hanno proprio nulla da sapere – o da capire.

Foto: J. Audema – French Colonial administrator Congo 1905

Preconcetti sull’Africa

“L’Africa non ha bisogno di essere salvata. Ha solo bisogno che quando sentite la parola Africa non abbiate più preconcetti”. La giornalista freelance Eliza Anyangwe, in un video di 4 minuti del Guardian riportato da Internazionale, sintetizza mirabilmente lo stato dell’arte su quel che i media dicono o dovrebbero dire sul continente africano. Afro-ottimisti e afro-pessimisti hanno forse interessi da difendere. Io voglio solo capire come stanno le cose.

(ringrazio Federico Marta della segnalazione)

La foto di Eliza Anyangwe è tratta da: eudevdays.eu

 

“Senza barbari”: una trasmissione per guardare oltre

Qualche giorno fa, sono stato intervistato da Angelo Cariello, per una trasmissione della radio MPA intitolata “Senza barbari”. Alla ricerca di un nemico che non c’è” (vedi: Sesta Puntata – Parte terza). La trasmissione, in modo intelligente e puntuale, punta l’attenzione sulla diversità e sul modo di considerarla. Inutile dire quanto questo tema sia attuale. Messaggio finale: mai generalizzare. Sembra banale, ma spesso ho l’impressione che abbiamo un po’ tutti perso l’arte del distinguere e del discernere.

La foto di Philip Emeagwali, matematico nigeriano, è tratta da: https://onsandoalan.wordpress.com/category/uncategorized/

 

Colonia e colonialismo

Non ho mai sentito dire tante fesserie in così pochi secondi: il  tempo di una intervista al telegiornale Sky.  Qualche giorno fa, il nuovo direttore de “La Stampa”, a proposito dei gravi fatti di Colonia (l’assalto sessista alle donne durante i festeggiamenti di Capodanno) ha affermato, più o meno, che l’assalto di gruppo alle donne di Colonia sarebbe un stato un atto tribale che ha origine dall’implosione degli Stati arabi in Nordafrica e Medio Oriente; tale implosione avrebbe fatto riemergere antichi, e mai del tutto sopiti, costumi di gente nel suo insieme (tutti quanti!) abituata da secoli alla razzia e alla violenza. Concetto ribadito in questo articolo. Mi limito a riportare questa replica dell’islamista Lorenzo Declich, dove si mostra che la realtà è un poco più complicata di quel che si vorrebbe. O forse più semplice, ma in un senso diverso. Cerchiamo di andare oltre.

La veduta di Algeri è tratta da: http://chiviaggiaimpara.blogspot.it/2015/07/paesaggi-lassekrem-nel-massiccio-gli.html

Il pensiero primitivo del giornalismo occidentale sull’Africa

Prendiamo la mappa e consideriamo la recente epidemia di Ebola in Sierra Leone, Guinea e Liberia. Questi Paesi sono più vicini alla Spagna che alla Tanzania, ma in Tanzania nel 2015 le prenotazioni alberghiere dei turisti sono calate del 50%, e invece in Spagna no. Perché? Soprattutto per via delle notizie giornalistiche prodotte dai media occidentali. Il giornalismo nei nostri Paesi, almeno quando parla di Africa, è basato su un pensiero magico, associativo, e per molti versi primitivo: l’Africa è un’entità unica, inscindibile, misteriosamente interconnessa. Le diversità, i distinguo, l’analiticità vengono applicate, quando avviene, solo alle vicende di casa nostra. Un breve e illuminante scritto della giornalista ugandese Nancy Kacungira sul sito della BBC fornisce qualche utile spiegazione e manda all’aria parecchi luoghi comuni. Ringrazio Fabio Feudo della segnalazione.

La veduta di Dar es Salaam è tratta da: http://www.busiweek.com

 

Il contributo dell’Africa al mondo

Siamo talmente abituati a ragionare su cosa il mondo occidentale può fare per l’Africa, che per molti risulta quasi impensabile concepire che l’Africa abbia mai dato qualcosa al mondo. Considerando a parte, naturalmente, qualche cliché caricaturale sulla natura, gli animali, gli indigeni nella savana, il senso del ritmo e della comunità. Ogni tanto, qualcuno riesce a bucare il muro di ignoranza e disattenzione, fornendo informazioni e dati di ricerche serie. O anche constatazioni, magari banali, che però spiccano nel panorama dell’offerta informativa sul continente africano, sulla sua storia, sulle sue genti. Ci ha provato anche Eliza Anyangwe, sul Guardian, pubblicando “le 10 cose che l’Africa ha dato al mondo” (grazie ad Andrea Declich per la segnalazione). Dal caffé al contributo all’arte moderna (vedi Picasso, Matisse o Kirchner); dalla matematica (il famoso “osso di Ishango”, l’oggetto matematico più antico del modo) ai materali per costruire i telefoni cellulari che usiamo tutti i giorni (ma che costano enormi, veri e propri, sacrifici umani, anche di tanti bambini); dall’idea filosofica dell'”Ubuntu” al jazz (io stesso ne avuto riprova ascoltando alcuni anziani cantanti, nel cuore del Congo, anni fa). La lista sarebbe, in realtà, assai più lunga, ma adesso tutto va bene, purché si vada oltre alle idee deformate che abbiamo dei popoli africani; idee deformate che molta parte giocano, per lo più  in negativo, anche in questi anni di dolorose migrazioni.

La foto dell’osso di Ishango è tratta da: http://afrolegends.com/2013/08/29/the-ishango-bone-craddle-of-mathematics/

Cina e continente africano: i media

L’immagine dell’Africa è una questione globale. Da un paio di decenni, come si sa, la presenza economica cinese nel continente africano è fortemente incrementata. Questa presenza è ora accompagnata e sostenuta da un forte investimento sul piano simbolico, comunicativo e delle relative infrastrutture. Solo per fare un esempio, dal 2010, il gigante televisivo cinese CCTV ha impiantato la sua sede a Nairobi e ora le sue emissioni coprono l’intera Africa. Vari progetti e ricerche cominciano ad interessarsi di questo aspetto non secondario della presenza cinese nel continente africano. Naturalmente, esiste anche l’aspetto di come i media cinesi raccontano l’Africa e gli africani, ed è un aspetto largamente inesplorato e poco conosciuto, almeno nei Paesi occidentali. Ma ogni tanto, non fosse altro che per motivi di cronaca politica, viene gettata un po’ di luce su quel che accade a questo proposito. Un esempio è la vignetta di sapore razzista che è apparsa recentemente su un giornale cinese, a proposito della visita del presidente Obama in Kenya. A latere, alcuni commentatori si sono anche soffermati su come vengano (mal)considerati gli africani che si trovano a vivere nel grande Paese asiatico. Evidentemente, esiste, anche lì, una questione irrisolta di stereotipi e pregiudizi.

La foto è tratta da: https://pdgc2012c.wordpress.com/

Bambini di serie A e bambini di serie B

L’annosa discussione sull’uso e l’abuso delle immagini dei bambini africani ha visto una nuova puntata. Sulla rivista “Africa”, un editoriale di Pier Maria Mazzola e Marco Trovato aveva puntato il dito su una campagna di raccolta fondi di Save the Children, che al di là delle migliori intenzioni tende a riproporre antichi e pericolosi clichés coloniali. Senza contare che nell’uso delle foto dei bambini africani non vengono applicati gli stessi principi etici che valgono a casa nostra. Ne è sorta una lunga polemica, di cui qui si possono cogliere alcuni passaggi. Un aspetto trascurato in questa polemica è il fatto che un grave effetto collaterale della presenza abnorme di tali immagini compassionevoli nei nostri media omette completamente l’esistenza di un’Africa adulta, e di validissimi attori africani (politici, sindacali, non governativi, imprenditoriali, della ricerca) che vanno sostenuti in un dialogo alla pari, non ostacolati, ignorati o bypassati.

La foto di Kevin Amunze (courtesy IBM research Africa) è stata ripresa dal sito:   http://edition.cnn.com/2014/04/25/world/africa/stunning-photos-africa-ibm/

L’Africa sui media occidentali: un panel al festival del giornalismo di Perugia

Il 15 aprile pomeriggio si terrà a Perugia, al festival internazionale del giornalismo, un panel dedicato a “L’Africa sui media occidentali: luoghi comuni, approssimazioni, dimenticanze“.
Il panel è organizzato da “Voci Globali”, la cui co-fondatrice Antonella Sinopoli spiega qui in dettaglio contesto e motivazioni dell’iniziativa. I promotori affermano: “Conflitti, bambini soldato, emergenze umanitarie, epidemie, sfruttamento delle risorse naturali e povertà: sono questi i temi che portano alla ribalta il continente africano. Difficile, se non impossibile, trovare sui nostri media notizie riguardanti lo sviluppo, innovazioni tecnologiche, contributi culturali e scientifici, democrazie modello e stampa libera. Dell’Africa viene dunque fuori un’immagine distorta, a senso unico e ‘occidentale’, che continua ad animare la coscienza collettiva e l’opinione pubblica. Senza contare che spesso gli articoli vengono scritti a tavolino, in alcuni casi da chi non si è mai recato nei territori di cui sta scrivendo.”

 

Nella foto, una delle opere di Daphné Bytchatch dal titolo: “Les fleurs du figuier sauvage” peintures réalisées à la lecture du livre ” La route des clameurs” d’Ousmane Diarra. Peinture à l’huile sur papier toilé 65 cm X 50 cm, Janvier 2015 Paris.